mercoledì 28 novembre 2012

INVESTIMENTI ARABI

Hanno iniziato dalla Costa Smeralda, promettendo di investirvi un miliardo di euro. E ora, gli arabi di Qatar Holding LLC, il fondo sovrano che fa capo all'emiro Hamad bin Khalifa Al Thani, pare punti ai nomi forti del lusso. Si vocifera che nel mirino ci siano Versace, Dolce&Gabbana, Pomellato, Missoni e altre aziende papabili. Il tutto, dopo che l'emiro si è preso, a luglio, Valentino Fashion group, stante la passione della moglie per l'italico marchio. Siamo destinati a vendere l'Italia a pezzi? Il problema è che per le aziende che aspirano a competere sullo scenario internazionale, ci sono poche alternative.

A spiegarlo ad Affaritaliani.it è uno degli imprenditori più illuminati su piazza, Domenico Menniti di Harmont&Blaine, il marchio del bassotto, titolare di un menswear vivace e apprezzato, cresciuto in questi anni al riparo da crisi grazie alla visione lungimirante del fondatore che, i segnali di mercato, li sa leggere con largo anticipo e che fino a oggi si è espanso nel mondo con le sue forze: Usa, Cina, area ex Unione Sovietica, paesi latino americani. Un fatturato che tiene, ora sui 62 milioni di euro, un Ebit del 6%, quindi in utile.
"Ma adesso siamo costretti a valutare vie alternative di crescita. Pensiamo alla quotazione in Borsa, anche se abbiamo spostato l'ingresso al 2016 perché la situazione dei mercati non è rosea. Siamo aperti al dialogo con potenziali partner, sempre,  ma partendo dal presupposto di cedere una minoranza delle quote societarie".  Il problema è sempre il solito, annoso ormai. "Le aziende non possono più accedere al credito ordinario, quello bancario. Nell'ultimo anno e mezzo il costo del denaro è triplicato, lo spread pagato dalle aziende è inverosimile, anche quando sono solide. E oggi, per competere sul fronte internazionale, è necessario  arrivare a una soglia strategica di almeno 200 milioni di fatturato".

Come? "L'unica via, a parte la quotazione, è il ricorso all'equity".  Perché è un fatto storico, come conferma lo stesso Menniti, che le aziende italiane soffrano di sotto capitalizzazione. "Un tempo per crescere bastava fare magazzino. Ora, con la crisi paurosa del retail, messo alle strette dal crollo dei consumi, il produttore è costretto a scendere a valle, ad aprire negozi per vendere direttamente al consumatore finale. E il costo è altissimo: il nostro negozio aperto di recente in corso Matteotti a Milano, ad esempioè costato  6 milioni di euro. Nel 2012 la quota di fatturato investita sul retail da Harmont & Blaine è stata pari al 22%. Come si fa a sostenere un ritmo costante di aperture senza una forza finanziaria alle spalle?". In più, vi è da dire che un tempo i fondi "portavano finanza e know how gestionale-operativo. Oggi portano anche mercati da aprire, essendo essi spesso asiatici, arabi".

Non ci si stupisca, quindi, se ogni giorno un pezzo di storia, di fatica imprenditoriale, viene ceduto. Non solo agli arabi: ci sono i coreani dei colossi Lg, E-land, Samsung. Ci sono i cinesi, alla ricerca forsennata di brand italiani con una storia, anche senza fatturato, che siano acquisibili al 100% per essere portati in Asia. Ogni tanto, fa capolino anche qualche grosso fondo americano. Certo, gli arabi paiono quelli più disponibili a spendere senza limiti. Ora, la Qatar Holding LLC, già proprietaria dei magazzini inglesi  Harrod's  e primo azionista di Tiffany, ha firmato un accordo con il fondo Strategico Italiano, la holding controllata dalla cassa italiana depositi e prestiti, per la costituzione di una joint venture chiamata IQ made in Italy venture.

Sul piatto, due miliardi di euro da investire in tutti i settori che rappresentano l'eccellenza italiana, dalla moda al design, dal food al lifestyle. Il problema è che, una volta acquisite al 100%, le aziende vanno portate avanti. E la vicenda Ferré insegna che una griffe, privata della sua anima e snaturata, vale più niente. Non basta un nome, non basta un logo, serve una strategia valida perché il lusso non si improvvisa. E vendere bellezza è un mestiere che richiede sensibilità, conoscenza dei mercati, capacità di dare identità al prodotto. Non tutti, anzi pochi, lo sanno fare.

F o n t e : libero.it