domenica 25 novembre 2012

TFR : TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO

Ti hanno appena assunto. Sei giovane e giustamente contento perché trovare lavoro in questo periodo di crisi non è facile per nessuno. Ma non sederti sugli allori. C’è una scelta da fare nel giro di poco tempo. Una scelta che avrà le sue conseguenze sul tuo futuro. Devi decidere come destinare il tuo Tfr, cioè il trattamento di fine rapporto. Entro sei mesi dall’assunzione, infatti, tutti i lavoratori dipendenti devono indicare cosa vogliono fare della liquidazione, una vera e propria retribuzione differita, che il datore corrisponde al dipendente in ogni caso di cessazione di rapporto di lavoro subordinato.

La decisione, frutto di una peculiarità tutta italiana, è repentina e delicata. In ballo non ci sono soltanto i criteri di convenienza economica, ma anche la propria propensione al rischio. Con l’aumento dell’età pensionabile, sempre più evidente con la riforma Fornero di un anno fa, infatti, il lavoratore dovrà scegliere se tenersi la liquidazione maturata e una pensione più bassa o se investirla nella speranza di avere una pensione vicina all’80 per cento dell’ultima retribuzione.

Il lavoratore dipendente appena assunto ha tre opzioni fondamentali per destinare il proprio Tfr:
  1. lasciare il Trattamento di fine rapporto nell’azienda in cui lavora,
  2. destinarlo al Fondo Tesoreria Inps (Istituto nazionale della previdenza sociale);
  3. sottoscrivere un’adesione ad una forma di previdenza complementare (fondi pensione) presso istituti bancari o compagnie di assicurazione.
Per capire cosa sia meglio scegliere è necessario partire da una distinzione basilare. La normativa, che ha subito le ultime modifiche con la riforma del 2005, distingue fra aziende con meno o più di 50 dipendenti. Le differenze sono sostanziali ed è opportuno vederle più nel dettaglio.

Aziende con meno di 50 dipendenti.
Se il dipendente lascia il Tfr nella propria azienda non ci sono molte novità rispetto al passato. C’è una rivalutazione ogni anno di un tasso determinato da una quota fissa dell’1,5 per cento e dal 75 per cento dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo accertato dall’Istat rispetto al mese di dicembre dell’anno precedente. Il Tfr maturato al momento della cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni, licenziamento e pensionamento viene calcolato sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all’importo della retribuzione dovuta per l’anno stesso diviso per 13,5 (è pari al 6,91 per cento della retribuzione). Inoltre il lavoratore può chiedere un anticipo fino a un terzo della liquidazione dopo 8 anni di servizio per il pagamento della casa o di spese di salute. La scelta di conferire il Tfr al datore di lavoro è reversibile, nel senso che in un secondo momento è possibile disporre il versamento all’Inps o al fondo pensione privato, ma non si può fare il contrario.

Aziende con almeno 50 dipendenti. Anche in aziende di queste dimensioni è possibile rilasciare il Tfr al proprio datore di lavoro. L’azienda è però obbligata a trasferire le somme presso un fondo unico nazionale, gestito direttamente dall’Inps. In caso di cessazione del rapporto di lavoro, oppure di una richiesta di anticipo, il datore di lavoro dovrà pagare al dipendente, per poi rivalersi a sua volta sul fondo previdenziale. Con la riforma del 2005 è stato introdotto il criterio del silenzio-assenso per il conferimento del Trattamento di fine rapporto a una forma pensionistica.
In pratica il lavoratore dipendente ha sei mesi per scegliere se destinare il Tfr ai fondi pensione (sia di categoria che aperti). Nel caso in cui il lavoratore non effettui nei termini di legge una scelta esplicita, il datore di lavoro trasferisce il Tfr alla forma pensionistica collettiva di riferimento, cioè a un fondo negoziale oppure a un fondo pensione aperto individuato in base ad accordi collettivi. In presenza di più forme pensionistiche collettive, il Trattamento di fine rapporto viene trasferito a quella cui abbia aderito il maggior numero di lavoratori dell’azienda. Qualora non vi sia una forma pensionistica collettiva di riferimento, il datore di lavoro trasferisce il Tfr maturando (ossia quello che matura dopo l’adesione a un Fondo) al FondInps, la forma pensionistica complementare istituita presso l’Inps.

Tra le scelte per destinare il proprio Tfr c’è quella delle forme pensionistiche complementari. Si tratta di un’opzione che lo Stato italiano sta incentivando da un punto di vista fiscale per favorirne la ancora scarsa diffusione. Basti pensare che i rendimenti prodotti sono tassati all’11 per cento anziché al 12,50 per cento previsto per tutte le altre tipologie d’investimento. 

Le più importanti forme di previdenza complementari sono classificabili in quattro gruppi.

Fondi chiusi o negoziali.
Il costo di gestione è il più vantaggioso. Sono istituiti dai rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavori nell’ambito della contrattazione nazionale, di settore o aziendale. A questa tipologia appartengono anche i fondi pensione cosiddetti territoriali, istituiti cioè in base ad accordi tra datori di lavoro e lavoratori appartenenti a un determinato territorio o area geografica. Questo tipo di Fondi, oltre al Tfr dei lavoratori possono raccogliere ulteriori versamenti effettuati sia dai lavoratori sia dai datori di lavoro. L’adesione a questi Fondi, tuttavia, non obbliga a versamenti ulteriori, in aggiunta al Tfr.

Fondi aperti.
Il costo medio di gestione è dell’1,9 per cento all’anno per 3 anni di sottoscrizione, dell’1,4 per cento per 10 anni e dell’1,2 per cento per 35 anni. Sono forme pensionistiche complementari istituite da banche, imprese di assicurazione, Società di gestione del risparmio (Sgr) e Società di intermediazione mobiliare (Sim). Questi fondi possono essere scelti per la destinazione del TFR da tutti i lavoratori. Il patrimonio dei Fondi resta comunque separato da quello della società che l'ha istituito, in modo da salvaguardare il credito dei lavoratori. Anche in questo caso l'adesione non obbliga a versamenti ulteriori, in aggiunta al Tfr.

Pip (Piani individuali Pensionistici). Il costo di gestione è il meno vantaggioso (circa il 2 per cento annuo per 35 anni di sottoscrizione). In genere sono creati dalle imprese di assicurazione attraverso polizze assicurative sulla vita con finalità previdenziali. Anche in questo caso il patrimonio dei PiP resta separato da quello della compagnia di assicurazione che l’ha istituito.

Fondi preesistenti.
Sono le forme pensionistiche presenti prima del 1993 quando la previdenza complementare è stata disciplinata per la prima volta. Dal 2007, con un disposto alla Riforma della previdenza complementare, si sono sempre più allineati agli attuali Fondi pensionistici integrativi.

Le tante opzioni in campo spesso confondono i lavoratori, soprattutto i nuovi assunti. Volendo trovare una sintesi delle varie opinioni degli esperti si può partire dal dire che se la propria azienda aderisce ad un fondo pensione tramite un accordo collettivo, per il lavoratore sarà sicuramente conveniente. La propria azienda, infatti, avrà l’obbligo di versare a favore del proprio dipendente una quota pari ad almeno il 2 per cento del suo reddito tabellare, cioè quello minimo previsto dai contratti collettivi per il proprio livello di inquadramento. Il dipendente, da parte sua, sarà obbligato ad investire mensilmente una quota, fiscalmente deducibile, pari all’1 per cento del proprio reddito tabellare.

Sicura, ma in generale meno conveniente la scelta del Fondo Tesoreria Inps. Da un lato i problemi di insolvenza sono ridotti, dall’altro le rivalutazioni attribuite al Tfr, pur essendo basse, sono comunque costanti e garantite nel tempo. Il rischio, invece, potrebbe essere altro se si lascia il proprio Tfr in azienda. L’insolvenza del datore di lavoro, infatti, lascerebbe il dipendente senza stipendio e liquidazione. Una prospettiva meno probabile per banche e compagnie di assicurazioni. Se si considera la questione dal punto di vista fiscale i fondi pensione sono più convenienti: mentre la tassazione del Tfr versato all’Inps dipende dalla propria aliquota media Irpef, infatti, nel caso dei fondi pensione l’aliquota di tassazione è pari al 15 per cento e può decrescere con l'aumentare dell'anzianità di contribuzione fino al 9 per cento.  L’altra faccia della medaglia sono i rendimenti altalenanti. Il fondo del resto non è tenuto a fare investimenti che tutelino il capitale, garantendo un interesse positivo, per quanto basso, come titoli di Stato oppure obbligazioni. Inoltre i fondi privati non sono a capitale garantito, in particolare in caso di fallimento del fondo stesso o delle imprese private in cui ha investito il capitale raccolto.

Per il Tfr non c’è, insomma, una scelta priva di pericoli. Lo Stato, però, è orientato a stabilire maggiori tutele soprattutto per la previdenza complementare. Non a caso la Covip, l’autorità amministrativa indipendente, che ha il dovere di vigilare sul buon funzionamento del sistema dei fondi pensione, ha un potere sempre maggiore. Dall’obbligo di individuazione dei gestori in base a una selezione pubblica all’indicazione dei criteri e dei vincoli agli investimenti fino all’imposizione di regole di gestione dei conflitti di interesse. E alla Covip recentemente è stato assegnato un altro compito: la responsabilità di controllo sugli investimenti finanziari e sul patrimonio delle Casse professionali private e privatizzate.

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